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AL DI QUA DEL CORONAVIRUS

NOTE SPARSE SUL CORONA VIRUS
di paolo di Giannantonio   Giornalista TG1


Non possono essere che note sparse, perché se – invece – riuscissi a scrivere qualcosa di organico e completo, riguardo a questo periodo, sarei un fenomeno. E, purtroppo, non lo sono. Mi limito a quattro punti.
La prima cosa che  mi viene di pensare continuamente è che ci siamo scoperti fragili, come mai pensavamo di essere. Parlo collettivamente ma anche singolarmente. L’Istituto Superiore di Sanità ha stilato l’identikit del malato ideale di Corona Virus: maschio, oltre i 60 anni, lombardo. Questo prima che la pandemia si estendesse in altre regioni del centro e del meridione. Togliendo, quindi, il terzo elemento, ormai non più valido, mi sono scoperto un perfetto prototipo. E non mi ha fatto piacere. Ma tutto potevo e potevamo pensare, fino alla fine del 2019, tranne che sarebbe accaduta una cosa del genere. Ci ha colti impreparati collettivamente: in Italia pregavamo e facevamo scongiuri immaginandoci una bomba dell’Isis o un attacco kamikaze, che finora – e per fortuna - non sono arrivati; pensavamo all’eventualità di un attacco o di un incidente nucleare, una costante sin dai tempi della bomba di Hiroshima; temevamo il ritorno del terremoto, con il quale, sappiamo da sempre, dobbiamo convivere. Ma tutto sommato pensavamo di vivere in una società che riusciva - grazie a scienza e tecnologia -  a darci livelli di sicurezza importanti, tanto che la morte è ormai considerata un incidente che non deve accadere (e se accade c’è un colpevole) piuttosto che una fine ineluttabile. Quindi: ci siamo resi conto di essere fragilissimi.
Come non ricordare la confusione e le indicazioni contraddittorie che le autorità scientifiche e politiche ci hanno dato nei primi e anche nei “secondi” giorni della pandemia? Nel mio piccolo, quando ancora si dibatteva sull’utilità delle mascherine, entrai in farmacia, sotto casa, e chiesi ai miei interlocutori di sempre lumi in proposito. Mi risposero col gesto della mano dondolante, a dita riunite. Cioè: ma che state a dire, le mascherine… inutili. Oggi, appena un mese e mezzo dopo, quelle dottoresse e quei dottori sembrano marziani, dietro protezioni da astronauti.    
Il secondo elemento che vorrei sottolineare è conseguenza del primo: ci chiediamo tutti: ma perché scienza e tecnologia non ci hanno salvato? Perché non hanno previsto? Siamo alla furibonda ricerca di un perché: perché da un mercato di periferia di una città cinese può scatenarsi, con tanta facilità, un uragano del genere? E soprattutto: è davvero così o dietro c’è altro? Confesso: di teorie cospirazioniste ne ho piene le scatole ma in una parte remota del mio cervello non posso fare a meno di considerare che a pensare male (d’obbligo la citazione andreottiana) qualche volta ci si azzecca. E allora lo dico apertamente: e se davvero fosse tutto originato da un incidente di laboratorio, o, peggio, da una strategia premeditata? Che in Cina  - ma anche in altri paesi - esistano scienziati che con i virus “giocano” da anni non è un mistero. Ma l’esperienza di 40 anni di giornalismo mi dice che sull’argomento potremo leggere nei prossimi anni tonnellate di libri.
Ricordo che tanti anni fa, ai tempi dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, ero in  Arabia Saudita, a Dahran, dove piovevano missili irakeni a getto continuo. La paura è che alcuni potessero essere armati con gas, Sarin o di altra natura. Avevamo – posso dirlo anche a nome degli altri giornalisti  italiani che erano lì – un forte timore. Ai colleghi americani, inglesi e francesi furono distribuite protezioni avveniristiche, moderne e persino eleganti. A noi italiani la nostra pur attenta ambasciata diede una pesante dotazione grigioverde che comprendeva maschere e filtri della seconda guerra mondiale, più una siringa da cavalli: in caso di gas Sarin – ci spiegarono – puntatevela sulla coscia e iniettatevela.
Allora ero un ragazzo e dopo qualche giorno buttai tutto in un angolo: almeno non avrei portato appresso un peso fastidioso. Ed in più: ma chi mi diceva se quel gas era veramente Sarin? Oggi, quando esco, bado bene ad indossare la mascherina: i 60 li ho abbondantemente superati…
Ai tempi della guerra del Golfo si faceva a gara a chi dava la notizia per primo (ricordate Emilio Fede?). La gara è proseguita e si è incattivita in tutti questi anni. Oggi, se potessi influenzare i colleghi, direi che sarebbe etico e virtuoso cambiare completamente paradigma;  arrivare per secondi o per terzi, ma sicuri di quello che si dice.  
Ma in quella occasione, ai tempi del Golfo Persico, di falsità se ne dissero tante. Come pure deflagrarono le bufale sulle armi di distruzione di massa che Stati Uniti e Gran Bretagna confezionarono ad arte per giustificare l’ intervento contro l’Irak. E siamo al terzo tema: le famose fake news. Che sono subdole come il virus. Avvelenano l’aria, i cervelli e le opinioni pubbliche. E noi, come categoria, stentiamo a tenere il fronte. Per la verità alcuni colleghi ci sguazzano dentro. Ma questo modo sporco di fare giornalismo c’era anche prima della pandemia.  Il dato nuovo è l’importanza dei “social” nel veicolare le teorie più strampalate. E inquieta che il Copasir abbia indicato nella Russia come il paese dal quale vengono propalate le notizie più false e più insidiose. Ma anche qui siamo in un terreno di guerra sul quale si spendono milioni i e milioni di euro, e sul quale saranno scritti saggi, manuali e romanzi. Ne leggeremo delle belle. Anzi delle bellissime.
Il quarto punto è fondamentale: la restrizione delle libertà democratiche, che consideravamo scontate. Oggi, qui da noi, sono limitate, per venire a capo dell’emergenza virus. Ma c’è chi, come Orban in Ungheria, le proietta ben oltre questo orizzonte. E siamo in Europa, nel cuore della democrazia. E di nuovo con i ricordi: ero a Londra, dopo i crudeli attentati di Al Qaeda contro gli utenti della Metropolitana. Intervistai una vice-ministro agli Interni che mi disse semplicemente: dobbiamo decidere. Se vogliamo più sicurezza dobbiamo rinunciare a un po’ di libertà. In questo modo ne autorità potranno installare ovunque  telecamere, utilizzare le immagini dei circuiti di sorveglianza privati e pubblici, entrare nei conti correnti bancari. Allora mi sembrava una assurdita. Ma non avevo capito.    
Chiudo con una notazione personale. Sento che qualcosa è mancato nel racconto di questa tragedia, che pure ha poccupato ogni spazio nei vari media. Abbiamo narrato lo straordinario, eroico, sforzo di medici ed infermieri. Ma le vittime, le persone comuni, sono rimaste solo numeri; freddi numeri: quanti morti, quanti ricoverati, quanti monitorati in casa, quanti guarit: cifre snocciolate alle sei di pomeriggio. Ma certo non abbiamo visto i volti, non abbiamo sentito dolore e paura di tanta gente, soprattutto anziani e soprattutto soli. Le immagini più forti sono state – a mio avviso – quelle bare accatastate una accanto all’altra sul pavimento di una chiesa, in provincia di Bergamo. E poi quel corteo di camion militari che le spostavano altrove.
Ho visto ed ho raccontato, nel corso degli anni, alcune guerre. E sono ancora convinto che la mia generazione e quelle successive siano state le più fortunate di sempre: 70 anni di pace in Europa! Mai successo. Avevo un professore di matematica che mi voleva molto bene, al liceo, anche perché ero il più scarso della classe. Gli facevo tenerezza. Lo feci arrabbiare perchè un giorno, mentre raccontava di aver dovuto combattere tutte e due le guerre mondiali, per amore di battuta gli dissi: allora è pronto per la terza… E lui, serissimo sbotto sbottò: la terza no, non avrei mai la forza per sopportarla. E più che ad una interrogazione mi sottopose ad una esecuzione che finì con l’ennesimo, tondo e perentorio 4.  Dopo la lezione, però, mi chiamò e, sorridendo, spiegò: “Ti metto voti bassi perché così alla maturità capiscono che in matematica sei più che scarso (per la verità disse “scemo”) e così non te la chiedono”.
Non sono migliorato per niente, negli anni. E anche per questo mi trovo in difficoltà con variabili e calcoli delle probabilità. Per questo mi astengo dal fare previsioni su come finirà la storia del Corona Virus. Nel frattempo… ho imparato ad avere pazienza.

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